Con il presente intervento ci si vuole soffermare su un aspetto di enorme rilevanza per tutti coloro che, in caso di infortunio sul lavoro, si trovano purtroppo molto spesso ad affrontare, oltre alla sempre terribile ingiuria delle conseguenze dell’incidente, anche l’ulteriore insulto del c.d. concorso di colpa: l’insulto non sta, ovviamente, nell’istituto giuridico del concorso di colpa, previsto espressamente dalla legge all’art. 1227 comma 1 del Codice Civile, ma nell’uso improprio che di tale istituto viene quasi sempre fatto, dai datori di lavoro e da chi ne tutela o ne condivide gli interessi, allorché l’infortunato avanza la richiesta di risarcimento del danno.
La norma citata, per fare chiarezza, stabilisce che “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”, e questo perché l’ordinamento fa carico al creditore – che in caso di infortunio è il lavoratore, in quanto è il destinatario della tutela nell’ambiente di lavoro nonché del risarcimento monetario dovuto per la violazione della tutela – di non cooperare nella produzione dell’illecito.
Il principio, in sé stesso semplice e di automatica evidenza anche solo secondo il buon senso comune, deve però essere correttamente inteso, ed applicato, nella materia degli infortuni sul lavoro.
La giurisprudenza ci ha infatti già da tempo insegnato che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso (citiamo, tra le tante, le seguenti pronunce della Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione: n.7328/2004, n.19559/2006, n.7127/2007, n.9817/2008, n.3786/2009, n.4656/2011, n.16474/2012).
Da qui deriva che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l’esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell’atipicità ed eccezionalità, cosi da porsi come causa esclusiva dell’evento.
Questo principio cosa significa in concreto?
Significa, innanzitutto, che il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, potrebbe invece tutt’al più rilevare come concausa dell’infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta.
Ma, e qui sta l’importanza di un’analisi più attenta, significa prima ancora che allorché la condotta del lavoratore, anche quando sia stata accertata come imprudente o negligente o imperita sia attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo per le modalità dell’esecuzione, il comportamento colposo del lavoratore assume efficacia soltanto di mera occasione o modalità dell’iter produttivo dell’evento, la cui responsabilità va, dunque, ascritta per intero al datore di lavoro.
Per “intero”, per essere chiari, significa che non ci può essere alcuno spazio per una limitazione di responsabilità del datore di lavoro e per l’ingresso del concorso di colpa del lavoratore.
In tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente – in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente, o anche solo del preposto che ne faccia le veci in concreto: ad esempio il capo turno) – finisce infatti per configurarsi nella determinazione dell’evento dannoso (con termine tecnico si chiama “eziologia”) come una mera modalità dell’iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell’ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso.
Facciamo un esempio: un dipendente, magari anche rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, a cui era stato ordinato di pulire le canaline di un magazzino cade da un tetto a causa dello sfondamento di un lucernario in plexiglass ed il datore di lavoro sostiene di non avere colpa per non avere mai ordinato all’infortunato, che dunque ha fatto tutto di testa sua, di salire sulla copertura; in un caso del genere, nel quale il lavoratore ha solo messo in atto la manovra ritenuta più opportuna, sebbene molto imprudente, per svolgere il proprio incarico, non gli può essere imputato nulla: egli, come detto, si è fatto male effettuando le proprie mansioni e, pur sottovalutando il rischio che correva, ha solo dato esecuzione ad un incarico dell’azienda, la quale, viceversa, avrebbe dovuto apprestare, e provare di aver apprestato, tutte le misure di sicurezza idonee per eviatre che quell’incidente capitasse.
La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, con alcune decisioni, è molto ma molto chiara su questo tema (citiamo, in particolare: n.1994/2012 e n.16474/2012), sicché, come chi scrive non si stanca di ripetere, occhi aperti!
avv. Mauro Dalla Chiesa