Con la sentenza n. 13806 del 19 maggio 2023 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla prescrizione del diritto degli eredi al risarcimento del danno biologico (iure ereditatis) conseguente alla malattia professionale contratta dal lavoratore nello svolgimento della sua attività e dei danni patrimoniali e non subiti dai familiari superstiti (iure proprio).
La vicenda riguardava gli eredi di un lavoratore pugliese deceduto a causa di un tumore alla faringe a seguito dell’esposizione a sostanze altamente cancerogene durante l’attività lavorativa.
Il Tribunale di Taranto e la Corte d’Appello di Lecce avevano rigettato la richiesta di risarcimento danni avanzata dagli eredi, assumendo l’intervenuta prescrizione del diritto nel 1991, anno dell’entrata in vigore della L. 277 del 1991 che ha predisposto cautele per i lavoratori esposti all’amianto. Secondo i giudici dunque l’oggettiva diligenza avrebbe imposto di percepire, anche per i congiunti, la malattia come conseguenza del comportamento del datore di lavoro che aveva esposto il dipendente all’inalazione di polveri così pericolose da esserne vietata la vendita.
Ad avviso della Corte d’Appello di Lecce in particolare, i congiunti avrebbero dovuto attivarsi già dal 1991 per interrompere la prescrizione ed evitare così l’estinzione del diritto a causa del trascorrere del tempo.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dagli eredi e rinviato alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione, ribadendo una serie di principi già affermati in passato, a partire dalla sentenza n. 10441 del 2007, allorché la Corte ha infatti statuito che, in materia di prescrizione del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale da malattia professionale, trova applicazione lo stesso criterio relativo all’azione diretta a conseguire la rendita da inabilità permanente nei confronti dell’INAIL, azione per cui si è affermato che la prescrizione decorre dal momento in cui uno o più fatti concorrenti forniscano certezza della conoscibilità da parte dell’assicurato dello stato morboso, della sua eziologia professionale e del raggiungimento della misura minima indennizzabile.
Successivamente, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 576 del 2008 (poi ripresa da altre pronunce nel 2017, nel 2018 e nel 2019), hanno poi affermato che “l’ordinaria diligenza richiesta al soggetto danneggiato sarà soddisfatta dall’avvenuta consultazione di personale sanitario e dalla sottoposizione agli accertamenti prescritti, dovendosi misurare il livello delle conoscenze scientifiche dell’epoca in riferimento al personale o alla struttura sanitaria che ha avuto in cura il paziente ed accertare se siano stare fornite informazioni atte a consentire all’interessato il collegamento con la causa della patologia o se lo stesso sia stato quanto meno posto in condizione di assumere tali conoscenze”.
Alla luce dei precedenti appena citati, la Corte di Cassazione ha pertanto concluso che “il punto di arrivo della giurisprudenza di legittimità, sia in tema di danno extracontrattuale e sia in materia di malattia professionale è che la prescrizione decorre non dal giorno in cui il terzo abbia determinato la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si sia manifestata all’esterno, bensì da quello in cui essa venga percepita o possa essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo costo della diffusione delle conoscenze scientifiche”.
Tali principi sono stati affermati come validi anche ai fini della valutazione della posizione dei superstiti.
Con riferimento ad essi è stato ulteriormente precisato che ai fini del decorso della prescrizione, è necessario che l’inerzia del danneggiato o dei suoi eredi possa considerarsi in qualche misura colpevole, presupponendosi dunque che l’uno o gli altri siano consapevoli o in condizioni di conoscere, secondo criteri di diligenza e tenuto conto delle conoscenze scientifiche dell’epoca, sia la malattia che il suo carattere professionale. La mancata conoscenza della malattia e del rapporto di causalità della stessa con l’attività lavorativa rappresentano infatti un impedimento giuridico all’esercizio del diritto e non consentono il decorso della prescrizione, a nulla valendo peraltro l’entrata in vigore di un testo normativo, ovvero il D. Lgs. 227 del 1991, in assenza di qualsiasi accertamento su elementi anche indiziari da cui gli stessi familiari avrebbero potuto percepire la derivazione della malattia dall’esposizione del loro congiunto ad agenti nocivi nel corso del rapporto di lavoro.