FAQ Infortuni e malattie professionali – Causa violenta

Malaria infortunio

Quesito

La malaria, contratta sul lavoro in Italia o all’estero, è da considerarsi infortunio sul lavoro o malattia professionale?

Risposta

La malaria è considerata attualmente una grave e comune malattia tropicale. Si tratta di un’infezione, dovuta ad un protozoo della specie Plasmodium, trasmessa agli esseri umani attraverso la puntura di zanzare anofele. I lavoratori in aree malariche (Africa sub sahariana, bacino del Mediterraneo, Italia compresa) possono contrarre la malattia. Le malattie infettive e parassitarie contratte in occasione di lavoro sono ritenute infortuni sul lavoro.

Qualche preoccupazione può suscitare la norma dell’art. 2, secondo comma, del TU 1124/65 che dice: “…è considerata infortunio sul lavoro l’infezione carbonchiosa. Non è invece compreso tra i casi di infortunio sul lavoro l’evento dannoso derivante da infezione malarica, il quale è regolato da disposizioni speciali”. Questa norma ha valore storico ed era motivata dal fatto che in Italia la malaria era diffusa così tanto che il rischio di contrarla era considerato generico. Ma arrivò il DDT e le campagne di bonifica sanarono l’Italia da quella piaga.

Nel 1987 la sentenza della Corte Costituzionale n. 226 dichiarava l’incostituzionalità dell’art. 2, secondo comma, del TU relativamente al capoverso riguardante la malaria, sottolineando come “… tale infezione, che colpisca il soggetto in occasione di lavoro, è da annoverare tra gli infortuni sul lavoro, di cui ha peraltro tutti i requisiti giuridici prescritti: evento dannoso che incide sulla capacità lavorativa (malattia parassitaria), avvenuta per causa violenta (puntura dell’insetto), in occasione di lavoro (ambiente in cui è presente la zanzara anofele)…”.

Nei casi di malaria, dunque, deve essere presentata all’INAIL di residenza del lavoratore la domanda di indennità giornaliera per infortunio e di indennizzo del danno biologico, accompagnata dalla certificazione della malaria e dall’indicazione del datore di lavoro e del luogo di lavoro all’estero o in Italia, dove si è contratto tale parassitosi.

(art. 2, 2° comma, TU 1124/65; Cor. Cost. 226/87)

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Quesito

Un lavoratore, per un malore sul lavoro, è portato al Pronto Soccorso, dove gli si fa diagnosi di infarto cardiaco. L’evento può essere considerato infortunio sul lavoro e come tale indennizzabile dall’INAIL?

Risposta

L’infortunio indennizzabile è quello che, in occasione di lavoro, è provocato da una causa violenta lavorativa, da cui deriva una lesione.

In questo caso, la lesione diagnosticata è stata di un infarto miocardico, che si è manifestato sotto forma di malore durante il lavoro. Ma l’infarto miocardico si manifesta frequentemente anche fuori dal lavoro, addirittura durante il sonno, pertanto, per cui ci si deve chiedere se durante il turno di lavoro nel giorno del malore ci sia stata una causa violenta lavorativa capace di scatenare il malore, poi diagnosticato come infarto.

Infatti, non tutti i “malori”, che possono coinvolgere il lavoratore sul luogo di lavoro, sono causati dal lavoro stesso; molti sono causati da malattie o alterazioni patologiche sofferte dal lavoratore, ma indipendenti ed estranee al lavoro. Poiché l’INAIL indennizza soltanto le lesioni causate dal lavoro, è evidente l’importanza di verificare quanto lo specifico lavoro abbia contribuito a scatenare l’infarto miocardico.

Tra le cause lavorative che possono contribuire a scatenare un infarto miocardico ci sono un’attività fisica troppo intensa per durata, gravosità e ritmo, oppure uno stress da costrizione organizzativa, oppure ancora uno stress termico, ecc.

Come si può intuire, è importante verificare ogni situazione lavorativa negativa discutendo con un medico-legale la relazione di causa-effetto con il malore.

(art. 2, TU 1124/65).

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Quesito

L’infortunio “da sforzo” sul lavoro è sempre indennizzabile?

Risposta

La causa violenta nella giurisprudenza ha avuto diverse rappresentazioni:

  1. una delle più seguite enuncia che la causa violenta consiste in un evento che, con forza concentrata e straordinaria, agisca dall’esterno verso l’interno dell’organismo del lavoratore, dando luogo alle lesioni. In tale nozione rientra anche lo sforzo fisico improvviso, che venga cioè a sovrapporsi a quello quotidianamente prodotto nell’esercizio delle mansioni dovute, ricollegabile al lavoro svolto, anche quando le conseguenze lesive si determinino con il concorso di una situazione morbosa preesistente. Tale causa violenta deve, in concreto, assumere le caratteristiche di un evento eccezionale e abnorme, il cui improvviso accadimento determini una brusca rottura dell’equilibrio organico del soggetto con valori eccedenti la normale tollerabilità dell’organismo (Cass. n. 9888/98).
  2. un’altra sostiene, invece, che lo sforzo fisico non deve necessariamente esulare dalle condizioni tipiche del lavoro cui l’infortunato sia stato addetto, purché si riveli diretto a vincere dinamicamente una resistenza peculiare della prestazione di lavoro o del suo ambiente e abbia determinato con azione rapida e intensa una lesione dell’organismo del lavoratore, senza che siano indispensabili i requisiti della straordinarietà, accidentalità o imprevedibilità del fatto lesivo. Peraltro, nell’apprezzamento dell’azione di lavoro, al fine di stabilire la sussistenza o meno nel singolo caso concreto degli estremi dello sforzo come causa violenta di infortunio, si deve tenere conto delle preesistenti condizioni fisiopatologiche del soggetto, in quanto una predisposizione morbosa dovuta a tali condizioni soggettive può far sì che il concentrato dispendio di energie per un atto di lavoro, il quale di per sé pur non ne richiede l’erogazione in misura ordinariamente tale da essere lesiva, provochi nella concreta situazione di menomazione del soggetto la brusca rottura del preesistente e precario equilibrio organico e dia luogo a conseguenze invalidanti o addirittura letali (Cass. n. 8388/87; Cass. n. 731/97).

Come si può notare le suddette sono due strade giurisprudenziali non precisamente concordanti, ma che escludono l’indennizzabilità di tutti gli infortuni da sforzo lavorativo. Ognuno di essi deve, quindi, essere considerato secondo il suo accadimento in relazione anche alla situazione psicofisica preesistente del lavoratore. Un’opposizione a tal riguardo è bene che contenga anche un certificato medico-legale che metta in relazione lo sforzo fisico lavorativo con le preesistenze patologiche, onde la questione sia discussa in collegiale medica.

(art. 2, TU 1124/65; Cass. n. 9888/98; Cass. n. 8388/87; Cass. n. 731/97).

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Quesito

Le condizioni microclimatiche possono provocare infortuni sul lavoro?

Risposta

Quando le condizioni microclimatiche di un ambiente diventano sfavorevoli, il sistema di termoregolazione del corpo mette in funzione opportuni meccanismi di difesa agendo sui vasi sanguigni. Questo meccanismo provoca anche un innalzamento o un abbassamento della pressione sanguigna, generalmente in termini fisiologici e senza conseguenze.

Talvolta, invece, specialmente in concomitanza di repentino cambiamento di molti gradi nella temperatura ambiente, lo sbalzo pressorio può essere importante e provocare collassi, sincopi, malori vari e svenimenti.

Si definisce “stress termico” quella condizione microclimatica che costringono ad un continuo lavoro i meccanismi di termoregolazione per mantenere l’equilibrio termico del corpo. È ciò che succede ai lavoratori che operano nelle celle frigorifere, o che entrano ed escono in continuazione da ambienti freezer ad ambienti dove la temperatura è notevolmente più alta. L’adattamento a queste condizioni diventa molto oneroso, tant’è vero che i lavoratori del freddo sono ammessi alla tutela dei lavori usuranti.

Lo stress termico può causare, dunque, collassi e svenimenti, che se accadono quando il lavoratore è alla guida di muletti elevatori o di macchinari trasportatori, possono provocargli conseguenze molto gravi, anche mortali. Si tratta certamente di infortuni sul lavoro.

(art. 2 TU 1124/65)

 

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