Con l’ordinanza n. 31471 del 13 novembre 2023 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento per inidoneità fisica del lavoratore divenuto disabile nel corso del rapporto di lavoro.
L’ordinanza ribadisce un principio giurisprudenziale già consolidato e ribadito pochi mesi fa nell’ordinanza n. 15002 del 20 maggio 2023 che pure è stata oggetto di attenzione e riflessione.
Secondo tale principio, nell’eventualità in cui, nel corso del rapporto lavorativo, sopraggiunga un’inidoneità fisica del lavoratore, affinché il datore di lavoro possa procedere al recesso, quest’ultimo dovrà in primo luogo tentare di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori e dovrà inoltre adottare ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, possa contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del lavoratore inabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua sopraggiunta condizione con quello del datore di lavoro a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
La vicenda trae spunto dal ricorso presentato da un lavoratore al fine di far accertare l’illegittimità del recesso disposto dalla società datrice di lavoro, irrogato a seguito della sopraggiunta inidoneità alla mansione allo stesso assegnata.
Il Giudice in primo grado annullava il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro assumendo come il datore di lavoro avrebbe dovuto dapprima proporre ricorso avverso il giudizio del medico competente, e successivamente, provare in giudizio l’impossibilità di attuare adattamenti ragionevoli nel posto di lavoro.
La Corte d’Appello confermava poi la decisione del giudice di prime cure e qualificava il recesso come discriminatorio per ragioni di handicap in ragione della normativa comunitaria e nazionale, dovendo il datore di lavoro cercare soluzioni organizzative e ragionevoli accomodamenti idonei a consentire la prosecuzione delle attività lavorative del dipendente, ed evitare che la ridotta capacità produttiva dello stesso potesse rappresentare una discriminazione vietata rispetto agli altri lavoratori impiegati in mansioni identiche.
Da ultimo, la Suprema Corte, investita della questione su ricorso della società datrice di lavoro, ha dichiarato infondati i motivi del ricorso confermando la decisione dei giudici d’Appello, ha ribadito il principio sopra richiamato, confermando altresì come la nozione di accomodamento ragionevole preveda che il costo economico della conservazione del rapporto di lavoro (se non sproporzionatamente eccessivo) resti a carico del datore di lavoro.
Per concludere, la Corte di Cassazione, nell’ordinanza in commento, ha dunque inteso riaffermare la validità di un principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito: il datore di lavoro, in caso di inidoneità sopravvenuta del lavoratore, deve sempre provare in giudizio l’assoluta e totale impossibilità di residuo impiego del dipendente all’interno dell’azienda; in caso contrario, vige nel nostro ordinamento il divieto di licenziamento del lavoratore disabile con conseguente declaratoria di nullità del recesso e l’applicazione della tutela reintegrativa piena.
Come già si è avuto modo di puntualizzare l’ordinanza, a ben vedere, non ha alcun carattere innovativo ma va certamente a rafforzare un principio di diritto consolidatosi ormai da tempo all’interno del nostro ordinamento (si veda Cass. 6798/2018) ossia quello dell’obbligo in capo al datore di lavoro di adottare tutte le misure volte a trovare una collocazione del lavoratore adatta alle sue specifiche capacità lavorative, eventualmente residue, così da scongiurare l’ipotesi estrema del licenziamento, salvaguardare in questo modo il mantenimento del posto di lavoro e tutelare i diritti e la dignità del lavoratore stesso.
Oltretutto si rammenta come l’INAIL offra il proprio sostegno ai datori di lavoro con interventi mirati al reinserimento delle persone con disabilità da lavoro. In attuazione dell’art. 1, comma 166, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di stabilità 2015), l’Istituto ha infatti adottato il Regolamento per il reinserimento e l’integrazione lavorativa delle persone con disabilità da lavoro successivamente modificato dalla determina 19 dicembre 2018, n. 527, le cui finalità sono quelle di: – garantire alle persone con disabilità da lavoro la conservazione del posto di lavoro e la continuità lavorativa prioritariamente con la stessa mansione oppure, qualora non sia possibile a causa delle condizioni psico-fisiche, con una mansione diversa, – garantire alle persone con disabilità da lavoro lo stesso sostegno previsto per la conservazione del posto di lavoro anche nel caso di inserimento in nuova occupazione, a seguito di incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Il dettaglio delle modalità operative per l’attivazione degli interventi è contenuto nelle circolari n. 51/2016, n. 30/2017, n. 6/2019 e n. 34/2020 che definiscono il procedimento per l’attivazione del progetto di reinserimento personalizzato, con la partecipazione attiva del datore di lavoro e del lavoratore disabile.
Ricordiamo ancora che sono tre le tipologie di intervento previste con i rispettivi limiti di spesa:
- interventi di superamento e di abbattimento delle barriere architettoniche nei luoghi di lavoro (limite massimo di spesa rimborsabile 95mila euro);
- interventi di adeguamento e di adattamento delle postazioni di lavoro (40mila euro);
- interventi personalizzati di formazione e tutoraggio (15mila euro).
Nel limite massimo fissato per ogni tipo di intervento, l’Inail rimborsa al datore di lavoro il 100% delle spese sostenute per il superamento o l’abbattimento delle barriere architettoniche e per l’adeguamento delle postazioni di lavoro e il 60% del costo totale degli interventi di formazione.
L’Istituto rimborsa e/o anticipa ai datori di lavoro le spese relative alla realizzazione dei progetti personalizzati attivati fino a un massimo complessivo di 150mila euro per ciascun progetto.