Tempo addietro, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione si è pronunciata su due casi assai simili, di due lavoratori (l’uno addetto ad un ufficio postale, l’altro alla filiale di una banca) vittime di rapina, con conseguenti pregiudizi non patrimoniali di tipo biologico e morale.
Le due sentenze emesse, entrambe coerenti con il dettato normativo, sono di segno opposto: la sent. 8 aprile 2013, n. 8486 ha confermato la sentenza di merito di condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni subiti dal dipendente, mentre la sent. 11 aprile 2013, n. 8855 ha confermato la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria.
Il principio da cui muovono le due pronunce citate è quello per cui la responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., se è vero che non può essere dilatata fino a comprendere ogni ipotesi di danno verificatosi a carico dei dipendenti in conseguenza di eventi criminosi, giacché altrimenti diverrebbe una sorta di responsabilità oggettiva, come tale non prevista dal nostro ordinamento, deve essere affermata ogni qualvolta sia accertata la violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale, ovvero suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche del momento.
Il Giudice di legittimità ha così specificato che gli obblighi posti dall’art. 2087 c.c. a carico dell’imprenditore in tema di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono soltanto alle attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma si estendono anche all’ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi devono prevenire sia i rischi insiti in quell’ambiente, sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova.
Ciò posto, fa carico allo stesso imprenditore valutare se l’attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione.
Proprio alla stregua dei dati di esperienza, il suddetto obbligo prevenzionistico ha un contenuto non teorizzabile a priori, ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di sicurezza comunemente adottate.
Posti tali principi di ordine generale, ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria da parte del lavoratore vittima di rapina presso il luogo di svolgimento della prestazione occorre dunque necessariamente accertare (1) se l’attività svolta sia connotata o meno da profili di rischio prevedibili, e (2) se il datore abbia in concreto omesso di adottare misure di prevenzione adeguate rispetto ai rischi riscontrati.
Fermo il fatto che sia un ufficio postale sia la filiale di una banca, essendo luoghi in cui tipicamente si trovano in giacenza notevoli quantità di contanti, sono sempre potenzialmente esposti al rischio di rapine, ciò che ha determinato l’accoglimento della domanda del primo lavoratore ed il rigetto di quella del secondo è l’accertamento – che c’è stato solo nel primo caso –, operato secondo i criteri della responsabilità contrattuale, e quindi con onere probatorio a carico del datore di lavoro, di effettive omissioni rispetto all’adozione di adeguate misure di sicurezza.
Il dipendente dell’ufficio postale aveva allegato nel proprio ricorso il malfunzionamento del sistema di allarme, la mancata installazione di vetrate antisfondamento ed antiproiettile, di doppie porte con apertura alternata e comando di blocco automatico, di impianti di videoregistrazione, di vigilanza a mezzo guardie giurate.
L’impiegato della banca, già in passato vittima di altre rapine, aveva invece dedotto quale unico inadempimento del proprio datore di lavoro il collocamento presso una filiale che, a suo dire, era notoriamente esposta al rischio, in quanto già teatro di altri episodi simili.
Nel primo caso, posto che l’inadempimento allegato dal lavoratore, astrattamente idoneo a fondare la responsabilità datoriale, non è stato smentito dal convenuto, sono ricorsi tutti i presupposti per una pronuncia di condanna.
Nel secondo, invece, l’allegazione relativa alla violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2087 c.c., prospettata sulla base del solo rilievo dell’adibizione del lavoratore presso una sede lavorativa notoriamente esposta al rischio di rapine, ha impedito di ascrivere a fatto colposo del convenuto l’evento dannoso verificatosi, dato che la prospettazione sottesa alla domanda si risolveva nel carattere di rischio oggettivamente intrinseco all’esercizio dell’attività bancaria.
Se dunque l’elemento della colpa del datore di lavoro è imprescindibile per una condanna risarcitoria a carico dello stesso, un discorso diverso deve essere fatto per la tutela indennitaria apprestata dall’INAIL.
Le regole generali che governano la materia sono quelle poste dall’art. 2 del Testo Unico INAIL (D.P.R. n. 1124/1965), che stabilisce che “l’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro”.
La causa violenta è costituita da qualsiasi dinamismo che agisce con un’azione rapida (tale cioè da operare con una modalità concentrata nel tempo), esterna all’organismo (la causa non deve essere un elemento insito nell’organismo del lavoratore), di tale entità efficiente da vincere la resistenza del corpo umano.
Per occasione di lavoro devono intendersi tutte le condizioni, comprese quelle ambientali, in cui l’attività produttiva si svolge, e nella quale è immanente il rischio di danno per il lavoratore, sia che il danno provenga dallo stesso apparato produttivo, sia che sia dipendente da fatti e situazioni proprie del lavoratore o esterne (come, ad esempio, il fatto di un terzo), e così qualsiasi situazione ricollegabile allo svolgimento dell’attività lavorativa in modo diretto o indiretto.
Al ricorrere di queste sole circostanze, diviene operativa la tutela assicurativa.
Di conseguenza, e tornando al tema specifico di cui si tratta, i danni che il lavoratore dovesse riportare ad esempio per un’aggressione fisica perpetrata dai rapinatori, dovranno certamente dar luogo, a seconda dell’entità dei postumi, all’erogazione di un indennizzo in capitale ovvero in forma di rendita, a prescindere da qualsiasi considerazione circa un’eventuale colpa del datore di lavoro.
avv. Mauro Dalla Chiesa